A tutti gli amici e simpatizzanti del Gruppo Hirben!
Presentazione
Questo blog è dedicato alla stupende montagne dell'Alta Pusteria e dintorni, dove per oltre 25 anni ho percorso i sentieri, le vie ferrate e le Alte Vie delle Dolomiti di Sesto, che costituiscono l'attrazione principale di questa bellissima valle.
E' anche un omaggio dell'Autore agli amici incontrati lassù, un'amicizia dalla quale nacque la mitica "Cordata Hirben" le cui escursioni merita senz'altro di raccontare.
Un altro scopo del blog è quello proporsi come guida escursionistica della zona e di descrivere le curiosità, le manifestazioni e le opere d'arte della Val Pusteria che fanno di questo territorio un piccolo monumento naturalistico e folcloristico (nella migliore delle accezioni) che non cesserò di raccomandare a chi ama la natura, la vita sportiva e la Bellezza in una delle sue forme più elevate.
Roberto Mulinacci
La "nostra" panchina |
Partecipanti: io e Giuseppino
Difficoltà: facile (un poco esposti gli ultimi metri che portano alla vetta).
Durata: Circa 6 ore comode.
Dislivello: Circa 1000 metri.
Il Picco di Vallandro dall'Alpe Serla |
La traversata verso la forcella Serla ci portò ad incrociare una malga nei pressi della quale pascolavano alcune mucche: un ambiente prettamente alpino.
Prima di giungere alla forcella si rinviene una deviazione sulla sinistra (ovest) che porta alle pendici dell'ultima sommità del Monte Lungo. Gli altimi metri sono abbastanza esposti e benché non si possa affermare che si tratti di un sentiero pericoloso occorre comunque non soffrire di vertigini.
Poi, si accede allo stretto spazio erboso dove sorge la grande croce di vetta, e qui, amici, è veramente il momento di fermarsi a riempirsi gli occhi delle stupende viste che il panorama ci apre davanti!
Sulla vetta del Monte Lungo |
Dopo un'ora buona di sosta occupata a scattare foto e a rifocillarci, abbiamo intrapreso la via del ritorno scendendo a Malga Pozzo e quindi, valicato il semplice Passo del Capro, siamo scesi direttamente al luogo dove avevamo lasciato l'auto.
Per accedere alla galleria completa delle immagini di questa escursione clikka qui.
R.M.
Il ritorno avviene per lo stesso percorso seguito all'andata.
Tempi di percorrenza: 2 ore per il Rifugio, un'ora per la sella fra i due monti e 20 minuti (per chi se la sente) per raggiungere la cima del Pulpito Alto.
Difficoltà: facile orientamento per raggiungere la sella e coraggio e piede fermo per salire la traccia (difficile, nonostante quello che ne dica il CAI) che porta in vetta.
Dislivello: circa 1100 m.
In una giornata che si preannunciava stupenda siamo partiti in tre: io, Giuseppino e Giuseppe 2 che però, giunti al Rifugio Comici, non ci ha seguiti preferendo fare il giro per il Rifugio Pian di Cengia, il Locatelli e ritorno in Val Fiscalina. Ma il bello viene proprio nel tratto che porta dal rifugio al Pulpito Alto.
Il Rifugio Zsigmondy-Comici ed il Pulpito Alto |
Si vede dall'assenza di tracce e dalla meravigliosa flora che dovunque ci circonda; il percorso è libero: occorre mirare a quella selletta che scende ad ovest del Pulpito Alto e a non lasciarsi confondere dai mughi che ci circondano. Ad un certo punto si entra in una specie di piccolo canon, dove i fiori formano unh tappeto multicolore inaspettato e meraviglioso: il Paradiso Terrestre! Dopo poco più di duecento metri di dislivello dal rifugio (che si vede sempre, piccolo, in fondo dietro a noi) si giunge ad una piccola radura dove giace un rudere di costruzione in pietra e dove si vede l'ingresso di una lunga caverna. Si tratta di resti della Grande Guerra; i reperti del genere abbondano in questa zona.
Salita verso il Pulpito Alto |
Giuseppino sulla vetta |
Dopo la discesa dalla cima del monte di Giuseppino, abbiamo proseguito la nostra esplorazione di quei luoghi quasi mai frequentati e poi siamo discesi seguendo lo stesso itinerario fatto per la salita.
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R.M.
Tempi di percorrenza: 3 ore per la forcella, 20 minuti per la vetta del monte, due ore e mezzo per la discesa.
Osservazioni: Salita abbastanza faticosa e discesa spezzagambe. 1000 metri di dislivello da superare.
Siamo partiti in cinque (io, Giuseppino, Giuseppe 2, Domenico e Luciana) in una mattinata soleggiata ma ventosa e fredda. Il sentiero si alza a strappi: prima una ripida salita porta ad una specie di altopiano, poi, allontanandosi dalla frontiera Italia-Austria (fin qui costeggiata) si entra decisamente in territorio austriaco e ci si alza in un largo giro a destra del monte Orecchio Piccolo. Un largo ghiaione porta infine alle prime rocce. Luciana e Domenico sono arrivati fino a qui; noi abbiamo proseguito. L'ultimo tratto è ripidissimo e si snoda sulle rocce: va affrontato in una arrampicata libera divertente e remunerativa. Giunti alla forcella Jagersharte: colpo di scena! Dall'altra parte è tutto un nevaio scuro e gelato. C'è nebbia e cade anche la neve. La temperatura è rigidissima, 8 gradi sottozero! A Luglio!. Non sentiamo le nostre mani; è difficile perfino scattare una foto o slegare lo zaino per poter mangiare un panino o bere dalla borraccia poiché abbiamo le dita gelate e quasi insensibili. Ci rifocilliamo velocemente (non vogliamo restare esposti al gelo improvviso), poi, seguendo Giuseppe 2, che ci ha preceduto, io e Giuseppino decidiamo di scalare l'Almerhorn, il monte alla nostra destra. Durante la breve salita non mancano i fiocchi di neve ma alla fine arriviamo alla grande croce di vetta! (Francesco, encomiabile) si è fermato alla forcella.
Scattiamo qualche foto, osserviamo l'inedito panorama e ci rallegriamo: una escursione su un quasi-Tremila è sempre una cosa rimarchevole. Dopo poco ci raggiungono 2 persone; sono di Agordo e sono venuti quassù per cambiare. Sono le uniche persone che incontreremo nel nostro percorso.
Ora possiamo iniziare la discesa che si rivelerà faticosa più del previsto: è la prima escursione importante dell'anno e poi il sentiero è tutto un continuo saltellare fra sassi più o meno dissestati. Finalmente torniamo al lago. L'escursione è finita: l'Almerhorn è stato domato!
Per tutte le foto dell'escursione clikka qui.
R.M.
Oggi, prima escursione dell'anno.
Dopo la passeggiata intorno al lago di Dobbiaco di ieri mattina, per stamani avevamo in programma la salita al Rifugio austriaco (Baumer Hutte) da Passo Stalle ma abbiamo rimandato questa escursione a domani perché così potranno partecipare anche Andrea e Sara.
Così oggi, per non restare inattivi, io, Giuseppino, Giuseppe 2 e Francesco siamo saliti al Rifugio Fonda-Savio.
La partenza è avvenuta dai pressi del lago di Andorno e in due orette siamo giunti al rifugio.
Qualche foto (alcune pubblicate qui) e dopo un veloce spuntino, impauriti dal tempo che pareva voler piovere, siamo tornati a valle con una discesa di un'oretta circa.
Io e Giuseppino davanti al Rifugio |
Il tempo si è sempre mantenuto nuvoloso ma non è mai piovuto.
E per questa volta va bene così.
Panoramica verso Rimbianco dal Rifugio |
A tutti gli amici del Gruppo Hirben,
Il sottoscritto e Franca saranno a Villabassa (Pensione Rose) dal 21 Luglio al 1 Agosto. Mi aspetto di trovare tanti amici per piacevoli camminate e belle giornate da passare insieme.
Saluti e a presto,
Roberto.
L’escursione che porta al Rifugio Barner è poco praticata e forse fu proprio per questo che, quel Luglio del 1995, io, che sono sempre alla ricerca delle cose un po’ insolite, decisi di farla, e da solo.
Il Rifugio BARNER (2610 m.) si trova ai bordi di un esteso nevaio nel versante austriaco dei monti Deferegger, assai vicino all’attacco orientale per la cima del Collalto, il monte più alto fra quelli di questa zona alpina.
Il Rifugio serve principalmente come punto d’appoggio per l’assalto al Collalto ma può anche essere utile come punto di sosta per coloro che intendono effettuare un bella traversata “alta”: quella che va dal Lago Obersee (a Passo Stalle) ad Anterselva di Sopra (o viceversa).
Io feci un itinerario più semplice; partenza da Anterselva di Sopra, arrivo al Rifugio e ritorno per lo stesso itinerario. Il sentiero parte dallo stadio di biathlon, poco prima di giungere al Lago di Anterselva e sale direttamente costeggiando un torrente fino ad un largo pianoro rosseggiante di rododendri, verso quota 2100. Da qui si sale seguendo gli omini di sassi e puntando verso la forcella che si apre in alto sulla destra. Sulla sinistra si costeggia il difficile ghiaione che porta ad una quasi inaccessibile forcella ma non era un mio obiettivo. Ad un certo punto ricordo di essere stato quasi “investito” da un gregge di capre che scendeva non so da dove. Ricordo che mi preoccupai non poco considerando la mia precaria posizione, quasi in bilico su alcuni massi assai esposti.
Il primo tentativo della conquista della vetta della Tofana di Rozes era avvenuto nel 1991 ed era fallito, ma non avevo smesso di pensare a quell’impresa. Ogni tanto ne parlavo con i miei compagni e riscontravo che l’interesse era notevole anche in molti di loro. Certo, dovevamo essere ben convinti di quello che facevamo quando decidemmo di ritentare quell’esperienza ma la fiducia era grande in ognuno di noi e poi questa volta eravamo tutti allenati, esperti e determinati a raggiungere l’obiettivo. Il gruppo che partì alla volta del Rifugio Di Bona quell’anno era composto, oltre a me, da Giuseppino, Marco, Gaetano e Francesco: praticamente tutti coloro che da un po’ di tempo si cimentavano nelle escursioni più impegnative.
Il tempo ci era favorevole: sole e temperatura mite ci accompagnavano mentre salivamo verso la galleria del Castelletto e ci aspettarono anche quando uscimmo all’aperto al termine di quella emozionante arrampicata nelle viscere della montagna. Fino alle Tre Dita la salita, che ho già descritta nel blog precedente, fu divertente e poco faticosa anche se mi pareva di avvertire qualcosa di strano e cioè che, nonostante il nostro impegno nel salire, sia diagonalmente lungo la cengia dove sono stese le prime corde metalliche, sia verticalmente nel tratto che precede le Tre Dita, ebbene, sembrava che non guadagnassimo quota. Era come se il nostro affannarsi producesse assai poco, basti pensare che dal punto in cui la galleria del Castelletto esce all’aperto (2657 m.), alle Tre Dita, che bisogna comunque “conquistare” con un’ora di ferrata, si progredisce in altezza di soli 60 metri!.
Il motivo di questa apparente stranezza risiede nel fatto che le stratificazioni rocciose della Tofana di Rozes non sono orizzontali ma affondano verso nord e si trovano quindi disposte diagonalmente di modo che, al termine di ogni tratto di corda che ci fa progredire in altezza, ogni breve tratto su cengia in direzione nord (tratto che sebbene sembri in piano è leggermente in discesa) ci fa perdere gran parte della quota così duramente conquistata.
Alle Tre Dita arrivammo piuttosto presto: non erano ancora le 12. Dopo una breve sosta partimmo per l’assalto finale. Per far questo dalla cengia delle Tre Dita si va verso destra invece che, come facemmo nel mio primo tentativo, a sinistra (che ci porterebbe al Rifugio Giussani); dopo poche decine di metri si rinviene la prima corda di quelle che compongono l’ultimo tratto della ferrata Lipella. Questa volta bisogna raccogliere le forze psicofisiche e salire. Si guadagna quota in una entusiasmante arrampicata dolomitica assolutamente verticale che si snoda innalzandosi nell’immane parete di roccia in un ambiente eccezionale. Ero il primo della fila e, voltandomi indietro per controllare la salita dei miei compagni che si trovavano sotto di me, mi sentivo piccolo e audacemente indifeso di fronte allo spettacolare e mastodontico anfiteatro dolomitico che si andava aprendo sotto e davanti ai miei occhi. Un centinaio di metri sotto di noi, un altro gruppo di circa 15 persone aveva iniziato anch’esso la salita; tutti uomini che sfidavano la grande Tofana, che si arrampicavano in fila indiana sopra l’enorme Val Travenanzes e davanti allo schieramento delle più prestigiose cime dolomitiche: Croda da Lago, Punta Fanis, Monte Cavallo e le altre due Tofane.. tutti eravamo consci di godere di un privilegio eccezionale, e ce lo assaporavamo tutto senza smettere però di restare tesi e concentrati sulla salita.
La ferrata Lipella termina appena superata quota 3000. Da qui c’è ancora da percorrere un ripidissimo sentiero ghiaioso che, con innumerevoli tornanti, porta alla cuspide sommitale. Siamo all’aperto: non ci sono corde a cui affidarci e non ci sono vicino a noi pareti di roccia o cime più alte di dove ci troviamo; pericoli non ce ne sono e non ci resta che da percorrere questi ultimi metri. E sono duri; durissimi.
In effetti, sarà stato per la fatica accumulata nella salita, sarà stato per l’altitudine inusitata (per noi non è frequente arrivare oltre i Tremila), mi sentivo addirittura spossato. Sapevo che non poteva dipendere solo dalla stanchezza, ma non riuscivo a respirare abbastanza e ansimavo cercando di riempire più che potevo i polmoni con quell’aria di alta montagna povera d’ossigeno.
Ma poi, ecco la grande croce di vetta! Ancora qualche passo e ci sono; è vicina, vicinissima.. la tocco: sono sulla Tofana di Rozes! (l’unica delle tre Tofane che si può raggiungere solamente con i proprio mezzi). Ci riuniamo, noi cinque. Accanto a noi ci sono altre persone che sono salite fino a quassù anche se non tutte per via ferrata (infatti si può giungere sulla vetta della Tofana anche seguendo quella traccia segnalata che parte dal Rifugio Giussani e che a noi servì per il ritorno) e tutti ci sentiamo terribilmente eccitati per l’avventura che abbiamo vissuto e per l’incredibile sensazione di alta montagna che ci circonda. La vista spazia a 360 gradi scoprendo allo sguardo tutte le cime dolomitiche. La giornata serena ci fa sembrare vicine anche le lontane Alpi austriache, e le altre Tofane, quella di Dentro e quella di Mezzo, separate da noi da uno strapiombo di quasi 700 metri sotto il quale si stende la valle dove sorge il Giussani, sembrano a portata di mano.
Ci rallegriamo l’un l’altro; scattiamo le foto di rito. Poi, dopo una mezz’oretta, diluita l’emozione e la soddisfazione e ristorata un poco la fatica, è tempo di incamminarci sulla via del ritorno. Scendiamo per qualche minuto lungo il ghiaione che ci ha portato in vetta, poi, prima di tornare al punto in cui sfocia la ferrata ma seguendo un cartello indicatore, deviamo a destra. Per grossi massi cominciamo una lunga, faticosa discesa saltellante che, in un paio d’ore, ci porta al Rifugio Giussani. Qui: sorpresa! ecco tutti i nostri amici della Pension Hirben che, a nostra insaputa, sono venuti a farci incontro per rallegrarsi con noi! Francesco e Domenico cominciano i cori a cui tutti noi ci aggiungiamo mantre gli avventori presenti nel rifugio assistono, stupiti; non sanno che noi facciamo così. Poi, piano piano, tutti insieme, scendendo per la larga strada dove passa il sentiero 403, torniamo al Di Bona completando il giro della Tofana. L’escursione è finita, la ferrata Lipella percorsa, la Tofana di Rozes conquistata: per noi della Hirben è stata una gran bella giornata.
Nelle foto:
Si sale verso l'imbocco della Galleria del Castelletto
Foto di gruppo prima di entrare nella Galleria del Castelletto
La cengia che porta dalle Tre Dita all'ultimo attacco della Ferrata Lipella
Francesco in posa davanti alla targa della Ferrata
Siamo in cima alla Tofana di Rozes!
Foto di gruppo accanto alla croce di vetta
Veduta dalla vetta delle due altre Tofane.
La serie completa è disponibile tra gli Album Fotografici
Ora che la cosa è andata devo dire che a fare la famosa ferrata “Lipella” alla Tofana di Rozes mi ci ero già provato, qualche anno prima, in un tentativo destinato fin dalla nascita (visto con il senno di poi) all’insuccesso. Quella volta eravamo in tre; oltre a me e a Francesco, anche Carletto, nonostante l’età e la scarsa forma fisica, era voluto venire con noi e di fronte alle nostre perplessità e nonostante tutti i tentativi per dissuaderlo, era stato irremovibile. Disse che quella sarebbe stata una delle sue ultime escursioni, che se l’era sempre sognata e che, come suoi amici, “dovevamo” portarlo con noi. Che fare? A malincuore accettammo.
Il punto di partenza dell’escursione è il Rifugio Di Bona (2050 m.) che si raggiunge in auto voltando a sinistra per una strada a sterro circa a metà della statale che da Cortina sale al Falzarego (cartello indicatore).
Lasciata l’auto al parcheggio del Rifugio si prende il sentiero 404 che, dopo essere salito alla base delle rocce meridionali della Tofana di Rozes, la contorna verso occidente fino all’imbocco della Galleria del Castelletto (2400 m. ca.). Percorrere la ferrata in galleria è una esperienza notevole anche perché il tunnel è lungo e, dopo i primi metri si restringe e si fa ripido. Occorrono nervi saldi, assenza di complessi claustrofobici e soprattutto una buona torcia che possa illuminare il cammino. Al termine del tunnel si sbuca su una specie di terrazza rocciosa (che trovammo innevata) che domina la sottostante Val Travenanzes (2657 m.). Seguendo il sentiero attrezzato, si volge a nord; per un po’ si procede quasi in piano, poi, presso una targa metallica, le funi metalliche puntano decisamente verso l’alto. Qui inizia la ferrata vera e propria. Ora, bisogna dire che, mentre fino a questo punto il tempo era stato assai favorevole dedicandoci una giornata un poco fredda, ma soleggiata e senza vento, adesso le cose cominciavano a cambiare e decisamente in peggio. Il cielo si era coperto velocemente di certi nuvoloni neri che facevano paura e si cominciavano a sentire dei brontolii che risuonavano giù nella valle amplificati dall’eco che non servivano certo a rassicurarci. Carletto era abbastanza distaccato da noi; saliva con il suo passo da montanaro esperto ma assai lento e decidemmo di non aspettarlo in quel punto. Gli gridammo che ci saremmo ritrovati alle Tre Dita e che, se fosse cominciato a piovere, si trovasse un riparo sicuro; quindi, io e Francesco ci affidammo alla corda metallica e cominciammo a salire. Non erano passati che pochi minuti che successe il finimondo. Cominciò a piovere una pioggia gelata che si trasformò presto in un temporale inaudito mentre tutto intorno a noi il buio quasi completo era squarciato solo dai lampi e i tuoni squassavano la montagna. Cavolo! Non era piacevole essere attaccati a delle corde di ferro che con l’acqua facevano sempre meno presa e potevano attirare i fulmini! Cosa potevamo fare? Eravamo bagnati fradici e non sapevamo dove la ferrata ci avrebbe portato; sapevamo solo che eravamo appesi ad una corda, schiacciati contro una enorme parete di roccia e nient’altro. Io ero davanti e Francesco seguiva a cinque metri di distanza: mi fece capire che la situazione era preoccupante ma cosa potevamo fare? La fortuna, o il caso, ci venne in aiuto. La corda passava accanto ad una grotta naturale scavata nella roccia: facendo forza con le braccia e aiutandomi con le gambe riuscii ad entrarci; Francesco mi seguì. La situazione ora era migliorata, ma non di tanto. D’accordo che ci trovavamo al riparo dalla pioggia, d’accordo che la probabilità di essere colpiti da un fulmine era drasticamente diminuita ma per il resto la nostra situazione, esaminata realisticamente, non era allegra. Ci trovavamo stretti in una grotta di due metri per due nella parete di roccia, come piccioni fermi su un cornicione a metà di un campanile, senza possibilità di poter comunicare con il mondo e senza poter uscire fino a che il temporale non fosse cessato. E se non fosse cessato tanto presto? Erano le una passate: dovevamo restare lì dentro tutta la notte? Cosa avrebbero pensato i nostri cari? E Carletto? Ci guardammo attorno: niente. Noi nella grotta sospesa tra cielo e terra; davanti a noi il buco dal quale eravamo entrati e la corda metallica che lo attraversava dall’alto in basso. Cominciò a nevicare. Era il sedici di Luglio, quasi le due del pomeriggio, tutta l’Italia boccheggiava dal caldo e noi battevamo i denti a 2600 metri d’altezza mentre davanti a noi si scatenava una tempesta di neve!
Verso le 2 la tempesta cessò, poi, in cinque minuti come avviene in alta montagna, uscì fuori il sole come se niente fosse accaduto. Ora faceva caldo. Dopo aver tirato un bel sospiro di sollievo salutammo la nostra provvidenziale grotta e ci riaffidammo alla corda metallica. In dieci minuti arrivammo alle Tre Dita, dove termina la prima parte della ferrata (2694 m.). Di salire alla cima della Tofana ormai, nemmeno a parlarne. Avevamo perso troppo tempo e Carletto ancora non si vedeva. Dopo un’ora eravamo veramente preoccupati. Aveva trovato un riparo? Era tornato indietro? E se gli fosse accaduto qualcosa? Seduti con le gambe penzoloni sull’abisso, scrutavamo senza requie le rocce sottostanti. Poi, lo vedemmo. Saliva lentamente, ma abbastanza in sicurezza, scrutando attentamente dove appigliarsi. Grazie a Dio non gli era accaduto niente; dopo mezz’ora ci aveva raggiunto. Ci disse che aveva trovato un riparo prima dell’inizio della ferrata e lì si era fermato fino al termine del temporale. Gli dicemmo che ormai dovevamo tornare: dalle Tre Dita saremmo scesi direttamente al Rifugio Giussani e da lì al Dibona; avremmo così fatto il giro completo della Tofana di Rozes anche se la “vera” Lipella e la vetta della Tofana dovevano essere obiettivi rimandati ad un’altra occasione. Carletto aderì alla proposta con entusiasmo. Ci disse che per lui questa era stata una vera avventura, che era soddisfatto così e che la conquista della Tofana l’avrebbe lasciata a noi per una prossima volta, di cuore.
Così scendemmo al Giussani dove giungemmo verso le 4 del pomeriggio. Con una bella tazza di tè caldo fra le mani, ripensando all’avventura appena trascorsa ci affacciammo alla finestra che dà sulla veranda del rifugio e… incredibile: nevicava di nuovo!
Questa volta non aspettammo che smettesse; uscimmo fuori e quasi di corsa imboccammo il sentiero 403 che velocemente ci riportò al parcheggio del Di Bona; erano le cinque e mezzo del pomeriggio.
Il primo tentativo di conquistare la Tofana di Rozes era fallito.
(Purtroppo di questa escursione non esistono documenti fotografici ma solo un filmato che cercherò di pubblicare in seguito).Eravamo nel Luglio del 2009 e già 25 anni erano passati dalla nascita del Gruppo Hirben (e gli anni si fanno sentire, alla lunga…). Le escursioni più complicate e le ferrate più difficili della nostra zona le avevamo già compiute quasi tutte (esclusa solo la famigerata ferrata “De Pol”, nel Gruppo del Cristallo di cui parlerò in seguito in questo blog) e, Giuseppino ed io, dovevamo trovare per forza qualcosa di insolito se volevamo fare qualcosa di nuovo.
La scelta cadde sulla famosa Forcella dei Sassi, l’alto valico che permette il passaggio tra la Val Campodidentro e la Val Fiscalina, una traversata difficile e lunghissima che il Visentini considera “una delle più belle traversate di tutte le Dolomiti”. (Luca Visentini: DOLOMITI DI SESTO). La nostra intenzione però non era quella di effettuare “tutta” la traversata anche perché la discesa dalla forcella dei Sassi all’Hotel Dolomiten in Val Fiscalina, è, a detta di tutti, difficile e assai pericolosa; a noi sarebbe bastato (si fa per dire) salire fino alla forcella per poter dare un’occhiata dall’altra parte: ci saremmo accontentati così, noi.
Quando la meta prefissata non è una cima, una croce di vetta o comunque un obiettivo certo, visibile e rinomato, qualunque conquista sembra banale, semplice e poco importante; è il caso di una forcella, una semplice depressione tra due montagne, a volte anche difficile ad individuare tra la selva di rocce, cime e guglie che contraddistinguono il colossale frastagliato panorama dolomitico.
Beh, tranquilli, la Forcella dei Sassi non è un obiettivo banale.
Innanzitutto per la sua altitudine (quasi 2700 metri), che richiede comunque il superamento di un dislivello di quasi 1200 metri, e soprattutto per la sua prestigiosa posizione che è, nello stesso tempo, nobile e misteriosa dato che divide la Punta dei Tre Scarperi (uno dei più mitici Tremila dolomitici), dalle Cime di Sesto che sovrastano la cittadina nella valle omonima. La forcella è un punto panoramico fantastico sia sul Gruppo dei Tre Scarperi, che sulla Croda Rossa di Sesto, Cima Undici e tutte le montagne a nord delle Tre Cime di Lavaredo.
Partimmo dal solito parcheggio, quello che si trova poco prima della sbarra che impedisce l’accesso, a chi provenga in auto da Sesto, all’ultima parte della Val Campodidentro. Superata la sbarra conviene traversare il breve tratto di bosco seguendo il sentierino che fa da scorciatoia per il Rifugio dei Tre Scarperi. Dopo solo pochi minuti, quando si sbuca sulla stradina asfaltata che va al rifugio, bisognerebbe subito traversarla e salire puntando direttamente alla Lavina dei Scarperi sicuri che, dopo poco più di mezz’ora di salita, si incrocerà il sentierino che porta, a sinistra, alla Forcella dei Sassi. Invece: sorpresa! Una frana enorme, caduta a valle due anni fa, ha tolto ogni riferimento. Nessuna traccia, ed i mughi che sono cresciuti nel frattempo hanno cancellato qualunque segno. Decidemmo di continuare sulla strada per il rifugio, osservando bene a sinistra alla ricerca di un varco che ci permettesse di cominciare la salita con qualche possibilità di successo. Niente da fare. Giunti quasi al punto in cui la stradina diventa a sterro i mughi sulla sinistra cessano per far largo ad un enorme fronte pietroso. Sono i resti di una enorme frana caduta dalla Lavina dei Scarperi che ha spazzato via ogni segno di sentiero, ogni traccia. Fu da quel punto che cominciammo a salire su per il ghiaione, io davanti, Giuseppino dietro, ognuno cercando un varco nei mughi che delimitavano la colata pietrosa sulla sinistra ma con poche speranze di trovare qualcosa. Poi, dopo circa un’ora dall’inizio dell’escursione, quando tra mille difficoltà dovute al terreno accidentatissimo ero salito di circa duecento metri, ecco che una interruzione nel fronte dei mughi alla mia sinistra, mi fece capire che avevo rinvenuto la traccia. Chiamai Giuseppino e ci incamminammo per quella parvenza di sentiero. La traccia corre longitudinalmente verso nord-est avvicinandosi sempre più all’ultimo sperone (di color giallo) che scende dalla sovrastante Punta dei Tre Scarperi. Segni rossi, un ometto di sassi… siamo sulla strada giusta (pensai). Il problema nacque però quando, dopo aver seguito la traccia fin sotto una parete rocciosa che sovrastava un torrente che scendeva impetuoso dalla Punta dei Tre Scarperi, dovetti constatare che anche in quel punto il sentiero era franato, anzi, era letteralmente scomparso. Bisognava però salire sull’altra riva del torrente se volevamo continuare la nostra escursione e per farlo dovevamo scendere per una decina di metri, traversare il torrente e, cosa assai più difficile, salire dall’altra parte. Giuseppino scese solo per constatare che non era possibile salire; nessun appiglio, terreno franoso… niente da fare. Pensammo di scendere verso valle seguendo il corso del torrente per cercare un punto più facile per l’attraversamento e, così facendo, fummo fortunati. Dopo un centinaio di metri in discesa ecco che le sponde del torrente divengono meno ripide e, ad un certo punto, è possibile passare dall’altra parte. Bisogna fare attenzione perché i mughi, subito a ridosso dell’argine franoso del torrente, lasciano uno spazio esiguo, ma comunque riuscimmo a risalire la sponda destra del corso d’acqua fino a tornare davanti, ma dall’altra parte, al punto in cui eravamo arrivati. Ora i segni rossi tornano, e non cesseranno più per un bel pezzo. Ci si inoltra tra i mughi e gli alberi e si sale ripidamente stando bene attenti a non sbagliare direzione. Dopo un’ora di salita si sbuca finalmente nei pressi di un enorme masso che si aggira sulla destra. E’ quello il punto in cui la vegetazione finisce e si sbuca nel Cadin dei Sassi.
Il Cadin dei Sassi è un ambiente incredibile. Si tratta di una distesa enorme di sassi, pietre e ghiaie di ogni forma e dimensione che scendono dalla Forcella dei Sassi e dividono la Punta dei Tre Scarperi dalle Cime di Sesto. E’ come un deserto, non vi sono punti di riferimento se non la forcella che si apre lassù, in alto. Bisogna progredire a caso (i segni e gli ometti, dapprima radi, a poco a poco, spariscono) contro un vento fastidiosissimo che toglie il respiro. Erano più delle una e ci fermammo a rifocillarci; quando ci rialzammo erano le due del pomeriggio; a malincuore decidemmo di farla finita lì. Eravamo stanchi ed avevamo perso troppo tempo a cercar sentieri e varchi di passaggio. Eravamo circa a quota 2300 e mancavano almeno altri 350 metri da salire per la forcella. La forcella la vedemmo solo da lontano. Dopo qualche foto, in quell’ambiente solitario e indefinibilmente pericoloso, tornammo indietro. Mi sono ripromesso di tornare alla Forcella in un’altra occasione; ora che conosco la strada sono certo di poter riuscire a raggiungerla. Giuseppino, c’è da scommetterci, sarà con me.
Nelle foto:
1 Io davanti alla Rocca dei Baranci nel punto in cui il sentiero sbuca nel Cadin dei Sassi.
2 Dietro di me, lontana, la Forcella dei Sassi nel punto massimo al quale arrivammo.
BIVACCO GERA e FERRATA MAZZETTA (alt. Max. 2413 m.)
Il sottogruppo del Popera è il più vasto, il meno esplorato e il più selvaggio delle Dolomiti di Sesto. La sua particolare riservatezza risiede nel fatto che nel suo territorio non si trovano strutture artificiali (funivie, seggiovie..) che possano attirare le torme di escursionisti improvvisati interessati principalmente ad arrivare presto e con poca fatica nei pressi di un bel “luogo panoramico”, fare venti fotografie e poi abbuffarsi, all’ombra e con tutti i confort forniti da un rifugio o comunque da una struttura similare, di canederli e polenta ai funghi.
L’unico rifugio presente nel sottogruppo è infatti il Rifugio Berti (1950 m.); una struttura deliziosamente alpinistica alla quale comunque non è agevole giungere se non da una parte e cioè arrivando dal Rifugio Lunelli (al quale si può arrivare in auto); per il resto, la possibilità di pernottamento e di riparo è data solamente da 3 bivacchi dei quali almeno 2 possono essere raggiunti solo con notevole esperienza alpinistica e allenamento psicofisico.
I tre bivacchi sono: il Piovan, il Gera e il Battaglion Cadore; di questi solo il primo è, per così dire, a portata di mano, richiedendo solo un’ascensione di poco più di un’ora provenendo dal Rifugio Lunelli. Gli altri due sono raggiungibili con difficoltà superabili solo da escursionisti esperti ed allenati e questo da ogni via d’accesso.
Mentre il Bivacco Battaglion Cadore è un punto fermo da chi voglia compiere la traversata dal rifugio Berti al Rifugio Carducci attraverso la Ferrata Roghel e il sentiero attrezzato della Cengia Gabriella (ma non dimentichiamo che dovrebbe essere uno dei poli dell’affascinante ma fantomatico sentiero che lo congiunge al Bivacco Gera attraverso il Cadin del Biso), il Bivacco Gera, il più meridionale, è ancora più lontano dagli itinerari battuti dagli escursionisti.
Decidemmo di visitare il Bivacco Gera un giorno che, con Giuseppino e Gaetano, pensammo venuto il momento di fare la conoscenza con la Ferrata Mazzetta, l’ultima che ancora ci mancava da percorrere nella nostra zona.
Sapevamo che non si trattava di una via ferrata particolarmente impegnativa ma non sapevamo come programmare l’itinerario; la zona è distante e non riuscivamo ad ipotizzare un percorso circolare che ci permettesse, al termine della nostra escursione di una giornata, di tornare al punto di partenza.
Alla fine decidemmo così: superato il Passo di Monte Croce Comelico saremmo giunti a Padola con due auto, la mia e quella di Gaetano. Lì Gaetano avrebbe posteggiato la sua auto e sarebbe salito sulla mia dove si trovava anche Giuseppino; tutti e tre saremmo quindi andati al Lunelli, dove avrei parcheggiato la mia auto.
Dal Rifugio Lunelli (1568 m.) la salita fino al Bivacco Piovan non è niente di speciale ma c’è da dire che qualche piccolo problemino ce lo pose. La salita su per i tornanti ghiaiosi, posta subito all’inizio del percorso, toglie il respiro fino a che non ci si assuefà alla fatica, ma mi disorientò il sentiero che trovai molto cambiato. Ero già andato al Piovan almeno due altre volte ma questa volta il percorso era diverso; una enorme frana precipitata a valle nell’inverno aveva cancellato il vecchio tracciato e, per raggiungere il bivacco dovemmo fare alcune faticose digressioni, scendere e risalire per alcuni dirupi e comunque perdere del tempo che non avevamo preventivato.
Ora veniva il bello; la parte più avventurosa dell’intera escursione. Dal Piovan (2070 m.) si può arrivare al Bivacco Gera da due vie diverse: una passa ad ovest di Punta Anna e attraverso la Forcella Anna (2570 m.) dà accesso al Cadin d’Ambata dove si trova il bivacco; l’altra si svolge ad est e giunge al Cadin passando dalla Forcella d’Ambata (2413 m.). Avevamo già tentato due anni prima, con Giuseppino e Claudio, di arrivare al Gera per la Forcella Anna (indubbiamente, con l’attrezzatura adatta, la via più facile), ma avevamo dovuto rinunciare per la forte innevazione della salita terminale che porta alla forcella. Eravamo senza ramponi e dovemmo, a malincuore, desistere.
Il percorso per la Forcella d’Ambata però, era una incognita: non avevamo idea di cosa avremmo potuto trovare; anche la “bibbia” del Visentini, al riguardo, fa sorgere diversi dubbi. Fu quindi con una certa preoccupazione, ma speranzosi di riuscire, che, dopo un riposino di qualche minuto lasciammo il Piovan dirigendoci lungo il sentiero che porta a sud (segnato 123).
Il sentiero, nella prima parte, è pressoché pianeggiante, poi, passata la Forcella della Rocca dei Bagni, si dirige verso la prossima forcella (detta della Rocca da Campo). Ecco: quasi a metà del percorso tra le due forcelle occorre scrutare attentamente le rocce di destra cercando di individuare alcuni segni rossi che indicano il punto in cui comincia il percorso verso la Forcella d’Ambata; non vi sono altre segnalazioni. Individuato il segno, mettemmo i caschi e cominciammo ad arrampicare.
La salita è entusiasmante; si sale in verticale, in arrampicata “libera”, avvalendosi degli ottimi appigli che si trovano da ogni parte sulla buona roccia e delle segnalazioni rosse che, ora evidenti, guidano la nostra progressione. Si sale in un ambiente prettamente dolomitico, tra quinte di roccia ed uno strano silenzio tutto intorno. Non c’è panorama intorno a noi, solo il precipizio che porta al sentiero dal quale siamo venuti a dal quale ci innalziamo sempre più: la sensazione è meravigliosa.
Al termine, però, dopo circa quindici minuti di salita, ecco quella che si rivelerà la massima difficoltà dell’intera escursione. Quando già si intravede la forcella e già si pregusta il momento in cui potremo issarci sulla selletta, il percorso si restringe, diventa una specie di stretto canale dove il sole non batte mai e dove la roccia scompare per lasciare il posto ad una specie di ghiaia fine, fradicia e infida. Mancano pochi metri alla mèta ma ora è difficile far presa con gli scarponi e anche gli appigli sembrano precari; ogni cosa che si tocca o sulla quale si appoggia il piede cede, lentamente ma inesorabilmente. Qui emerge il vantaggio di non aver intrapreso il percorso da soli: tre persone sono decisamente meglio di una quando si tratta di superare delle emergenze o delle difficoltà impreviste; comunque io sconsiglio decisamente di affrontare la salita alla Forcella d’Ambata in solitaria.
In tre, quanti eravamo noi, è un’altra cosa: uno, sotto, facendo forza con il piede sulla roccia sana, sostiene il piede di colui che sale dandogli così sia l’appoggio necessario per progredire sia un grande aiuto psicologico. Quello che sale per primo infatti, sa che può tentare di appigliarsi anche a prese all’apparenza poco sicure dato che, in ogni caso, non potrà precipitare. Nell’ esile camino si può però salire poco alla volta contrastando con le spalle contro le strette pareti; alla fine, e con notevole sforzo, il primo che sale può giungere alfine sulla forcella. Ora è facile: si cala un cordino e gli altri che seguono, in quattro e quattr’otto, sono con lui sulla selletta.
Eccoci quindi a metà dell’opera: sotto di noi s’apre il Cadin d’Ambata ed il Bivacco Gera, che spicca, rosso, nel verde del prato sottostante; è laggiù che ci aspetta. Da questa parte ci sono anche delle corde fisse che ci agevolano la discesa (ma sarebbero state utilissime nella parte finale della salita): in quindici minuti siamo al bivacco.
Ora ci possiamo riposare un po’; entriamo nel bivacco (2240 m.) e annotiamo data ed estremi della nostra visita nel libro di bordo, poi è tempo di soffermarsi a godere dell’insolito ambiente e di scattarci foto a vicenda.
Il Cadin d’Ambata è solitario, circondato da alcune delle più selvagge cime di tutte le Dolomiti; sono quelle che costituiscono l’ossatura del sottogruppo del Popera dove una enorme dorsale si estende ad un’altitudine media di quasi 2900 metri e quasi senza possibilità di attraversamenti dal Monte Popera alla Cima di Ligonto; una dorsale altissima con cime importanti e con pochissimi valichi escursionistici. Monte Giralba, Cima Bagni, Croda di Ligonto, Croda di Tacco, Croda da Campo, ecco i nomi delle più importanti cime del sottogruppo. Sono montagne vere, importanti, toste, montagne come se ne possano trovare poche di così selvagge, isolate e sconosciute specialmente nel continente europeo, e noi abbiamo la fortuna di poterle visitare, conoscere ed apprezzare: siamo qui, ora!
Dopo le foto di rito e un meritatissimo panino ecco che ci dirigiamo a sud, in leggera discesa. Dopo pochi minuti si rinvengono le segnalazioni che indicano, a sinistra, il percorso per la Ferrata “Mazzetta”.
La ferrata sale, non eccessivamente esposta, attraversando lo sperone meridionale della Croda di Tacco. Le attrezzature sono buone, utili e ben tenute; la salita è piacevole e, a tratti, entusiasmante. Penso che pochi escursionisti vengano da queste parti, poco invogliati dalla lontananza delle via di accesso e dalla eccessiva solitudine dei luoghi; a mio avviso invece questi sono motivi in più per venire a visitare una delle parti meno conosciute delle Dolomiti di Sesto.
Alla fine della ferrata: ciliegina sulla torta! Le attrezzature terminano proprio sotto una specie di parapetto in roccia; la Forcella di Tacco (2347 m.). Ci si affaccia a quel davanzale naturale e si resta senza fiato: un panorama meraviglioso si stende davanti ai nostri occhi! In una giornata dove lo sguardo quasi mai ha potuto godere di grandi vedute ecco che l’intera Val Comelico ci si stende davanti fino al Cadore con i suoi paesini di Padola e Candide e le montagne delle Alpi Carniche che dominano tutta la sua sponda orientale. Osserviamo il Monte Cavallino, il Monte Arnese e tutte le cime che costituiscono la frontiera con l’Austria.
Lo spettacolo invita alla contemplazione e per dieci minuti ci soffermiamo ad osservare dall’alto, da una postazione insospettabile e privilegiata, uno dei più bei panorami delle Alpi Orientali.
Poi, è tempo di proseguire il cammino. Ci caliamo, uno dopo l’altro, giù per le corde metalliche della ferrata (che prosegue al di là della forcella) poi proseguiamo per la traccia che porta a valle fin che non incrociamo il sentiero 153, che superiamo. Proseguiamo per il 152 che porta alla Casera Aiarnola; da qui (occhio a non sbagliare strada: occorre prendere la traccia di sinistra), un sentiero scende velocemente a Padola dove ci aspetta l’auto di Gaetano; tutti a bordo fino al Rifugio Lunelli a prendere l’altra auto (la mia) e poi, a casa! L’appagante escursione (è durata una intera giornata con un dislivello di circa 1100 metri) è finita.
Fotografie: (Accanto al titolo foto ricordo davanti al Bivacco Gera)
Salita dal Lunelli al Bivacco Piovan
Arrampicata verso la Forcella d'Ambata
Io e Giuseppe sulla Forcella d'Ambata
Veduta del bivacco e della Cima di Ambata
Discesa dalla forcella di Tacco verso la Val Comelico